venerdì 12 ottobre 2007

Magic

Fra i tanti difetti che ho, uno dei peggiori è che sono uno sfegatato springsteeniano. Se vi chiedete perché questo sarebbe un difetto vi consiglio la lettura di "Accecati dalla luce" edito da Gianluca Morozzi per Fernandel. Oppure chiedete a mia madre.
Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
A scanso di equivoci dico subito che aspettavo questo disco da più di vent'anni. Questo disco nel senso di un disco come questo. Un disco che Bruce non è stato in grado di, o non ha voluto, pubblicare per più di due decenni. E lo dico ben sapendo che la sua voce non è più quella di vent'anni fa, che Brendan 'O Brien non è forse il produttore giusto per la E street Band, che la copertina non è granché, che certi suoni sono bruttini... Però di fronte ad un pugno di canzoni bellissime e suonate in modo splendido alcune critiche circolate in rete mi hanno davvero stupito. Perché questo è un grande disco, cosa che non erano né The RisingDevil and Dust. Ma soprattutto questo è un disco di grandi canzoni rock, pure, semplici, dirette, mainstream, springsteeniane. Ed è perlomeno da Born in the USA che non sentivamo nulla di simile. Ho letto critiche che parlano di un disco "di mestiere", di "mancanza di ispirazione", di un disco pensato solo per il live. Ognuno certamente avrà i suoi gusti e le sue preferenze. Quello che a me sembra, è che questo sia un disco che cresce incredibilmente ascolto dopo ascolto. Che ci sia più buona melodia in una singola canzone di questo disco che in tutto The Rising. Che sia un pò come il maiale nelle campagne di una volta, non si butta vi niente; non c'è una sola canzone debole o scarsa. La qualità media della scrittura (melodie e testi) è alta. Ed in più ci sono canzoni davvero bellissime: Long walk home sarà un classico, Radio Nowhere è il più bel singolo di Springsteen dai tempi di Hungry Heart, Girls in their summer clothes è una melodia straordinaria, degna del miglior Brian Wilson, I'll work for your love è puro Springsteen style rock'n'roll, Gypsy biker sembra un pezzo di Lucky Town suonato dalla E street (il che è quasi un sogno), Last to die è una botta come lo era Roulette ai tempi belli. La band è di nuovo la band, con la sua potenza e i suoi ricami, e non è quell'insieme di buoni turnisti che pareva su The Rising. Si sente di nuovo Danny, vivaddio, con i suoi discreti tweeeee tweeee, si sente un muro di chitarre e c'è materia finalmente per il grande Max, grandissimo davvero per tutto il disco. Mi spiace per i tanti falsi web giornalisti e per i neo-springsteeniani sboroni ma a riascoltare The Rising dopo questo disco si percepisce quanto loffio fosse.
Vengo ai testi. Certo non siamo di fronte a Jungleland o Darkness. Ma se pensiamo che ci siamo dovuti sorbire Secret Garden e Sad eyes, ragazzi non scherziamo! Le liriche sono molto buone e raccontano personaggi vaganti alla ricerca di qualcosa, spiriti fraintesi fra ciò che è vero e ciò che non lo è, con una cifra generale che è quella dello smarrimento, della paura, di nuove fughe, di movimento senza quiete, lontano da un mondo dominato da relazioni sociali disgreganti, alienanti, sfasciate, da città che sono in rovina o in fiamme. E sullo sfondo, costantemente, fra metafore ed accuse evidenti, quella guerra che sta ricacciando l'america indietro nel tempo. Alla faccia di chi ci ha detto, casa discografica in primis, che questo non era un disco "politico": è il disco più politico di Springsteen da Born in the USA, se si considera Tom Joad un disco di denuncia sociale. Qui la magia non è quella di Born to run, qui si intendono i giochi di prestigio di un governo che fa credere quello che non è, che falsa il gioco, che cambia il significato stesso delle parole libertà, democrazia, pace. "The freedom that you sought's driftin' like a ghost amongst the trees, this is what will be" oppure "You said heroes are needed, so heroes get made. Somebody made a bet, somebody paid". E poi ci sono le bare del cimitero dove verrà seppellito il motociclista gitano: "You slipped into your darkness, now all that remains is my love for you brother lying still and unchanged to them that threw you away... Now I'm counting white lines, countin' white lines and getting stoned my gypsy biker's coming home". E ancora gli errori di Last to die: "Who'll last to die for a mistake, whosw blodd will spill, whose heart will break...". Persino in un pezzo spensierato come Livin' in a future, nel contesto di una crisi di coppia si fa riferimento alla delusione per le elezioni con una emblematica nave chiamata "Liberty" che se ne naviga lontano verso un orizzonte rosso sangue.
Ma in questo sfacelo ecco apparire una strada, un sentiero, quello che Bruce indicava ai tempi del Vote for Change, quel concetto di comunità locale che può rendere l'individuo meno solo, che costituisce a sua volta comunità più grandi e complesse. E' una lunga strada verso casa, a Long walk home, questo muoversi senza una meta apparente, fuggendo l'oscurità. Una casa che non sono solo quattro mura dove rinchiudere le proprie incertezze, ma una casa che è invece una comunità che ti abbraccia, dove non sei affollato ma nemmeno solo, dove c'è una bandiera, che in fondo è quella stessa bandiera che stava sulla copertina di Born in the USA. "You know that flag flying over the courthouse, means certain things are set in stone. Who we are, what we'll do and what we won't". Springsteen riparte dai padri fondatori, come sempre. Da quella Costituzione calpestata dall'attuale amministrazione. E dà una direzione ai suoi nuovi spiriti vaganti. "Everybody has a neighbor, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again". Questo è Bruce. Questo è il rock con cui sono cresciuto e che mi fa battere il cuore.
Tutto bene? Ovviamente no. La voce certamente non è più quella di un tempo, appesantita anche da una produzione forse eccessiva. I suoni non sono indimenticabili e certi arrangiamenti sono ridondanti. Forse una produzione alla Steve Van Zandt vecchi tempi avrebbe arricchito ulteriormente i pezzi facendo di Magic il capolavoro della maturità di Springsteen. Invece ci tocca ancora una volta avere dei rimpianti.
Ma quando il pianoforte annuncia l'inizio di Terry's song non posso che pensare a quando urlavamo "Terry!" da sotto il palco a Genova o a Nizza, con Massi e il Lello, e ascoltare in silenzio una ballata meravigliosa, sicuro che erano vent'anni che aspettavo un disco come questo. Semplicemente un disco di Bruce e della E street band.

2 commenti:

giuliano ha detto...

ascoltati l'ultimo dei radiohead, và...

Corrado Dottori ha detto...

Eseguirò diligentemente il compito!