venerdì 29 febbraio 2008

Giovedì 6 marzo

Giovedì prossimo sarò ospite del Ristorante "La tana degli orsi" di Pratovecchio (Arezzo) per una degustazione di vini marchigiani. Sarà per me la prima visita nel locale di Caterina e Simone che in molti mi dicono sia un luogo di riferimento del mangiare e bere bene nel casentino.
Questo è ciò che hanno scritto per pubblicizzare l'evento, meglio non saprei fare:
Giovedì 6 Marzo 2008 “La Distesa , Malacari , Collestefano …. Le Marche nel bicchiere !!!” Una serata speciale in compagnia di Alessandro Starrabba dell’azienda Malacari, Corrado Dottori de La Distesa e Fabio Marchionni di Collestefano. Un’occasione unica per fotografare in maniera precisa il quadro dell’enologia marchigiana. Il Verdicchio di Matelica di Collestefano rispecchia fedelmente la tipicità del proprio territorio con una vitalità che a noi lo ha fatto amare da subito. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi de La Distesa è un vino che ben si identifica con Corrado, con la sua forte personalità e trasmette in maniera netta il territorio e la naturalità con cui è prodotto. Il Rosso Conero di Malacari è vino di riferimento, è da sempre nella nostra carta e Alessandro è certamente tra i vignaioli del nostro cuore, appassionato e fedele interprete della sua terra. Un appuntamento dalle mille sfumature!

Ristorante Cantineria “La Tana degli Orsi”
Via Roma 1 , Pratovecchio AR
Tel. e Fax 0575 583377 Cell. 329.8981473
E.mail tana.orsi@aruba.it

lunedì 25 febbraio 2008

Global warming e Verdicchio

Lo scorso anno ci fu un pò di polemica fra il sottoscritto e alcuni bloggers enoici, primo fra tutti Franco Ziliani di Vinoalvino. La materia del contendere era l'eccessiva gradazione alcolica dei vini, da imputare - secondo alcuni - alla ricerca di concentrazione da parte dei viticoltori, dalla volontà, cioé, di seguire una certa moda impostasi negli anni passati. Io cercai di argomentare che vi è anche questo aspetto da tenere presente ma che ben più rilevante è, a mio avviso, il vero e proprio susseguirsi di annate sempre più anormali dal punto di vista metereologico. Ovviamente mi diedero del "catastrofista" e dell'ingenuo perché, si sa, per controllare le gradazioni alcoliche basta vendemmiare in anticipo... E chissenefrega dei tannini verdi, degli squilibri nelle acidità, della mancanza di armonia. Insomma se Gli Eremi riporta sempre 14° in etichetta, anche in annate fresche come il 2002 e il 2004, sarebbe perché voglio avere un vino alla moda, concentrato e marmellatoso...
Ho fatto questa introduzione perché vorrei condividere con voi i dati, scientifici in questo caso, del Centro Operativo di Agrometereologia della Regione Marche. Questi dati dicono chiaramente che, perlomeno nelle Marche, vi è stato nell'ultimo mezzo secolo un impressionante cambio di clima. Con temperature medie estive nettamente crescenti lungo tutto il periodo 1961-2007. Non solo. Se l'ultima estate può essere considerata come la terza più calda della storia, dopo l'inarrivabile 2003 e il 1994, nelle dieci più calde ci sono 1998, 2000, 2001, 2003 e 2007. Inoltre le dieci più calde vengono tutte dopo il 1985 e le annate 2002, 2004 e 2005 considerate "fresche" risultano comunque più calde della media del periodo 1961-2007. A questo va aggiunto il quasi costante deficit idrico, per cui ad esempio nella scorsa estate, a fronte di una media storica di 60,4 mm di pioggia nei mesi di giugno, luglio e agosto, sono caduti nella nostra regione 32,2 mm cioé quasi la metà. Così si spiega anche il forte calo delle rese. Perlomeno per i viticoltori onesti. Poiché a guardare le dichiarazioni di produzione si scopre che alcuni produttori hanno prodotto la stessa quantità di uva e sempre vicino ai massimi del disciplinare. Il che può avere solo due spiegazioni: o di solito queste aziende producono molto più del disciplinare (ovviamente senza dichiararlo) oppure esistono fenomeni microclimatici tipo vigna di Fantozzi che si sposta solo su certi produttori fortunati...
Inutile dire che questi dati confermano i trends presentati da Al Gore nel suo film documentario Una scomoda verità. Un film che, pur con alcuni limiti, denuncia una situazione-limite verso la quale si sta facendo ancora troppo poco, sia da parte del mondo politico, sia da parte dei normali cittadini.
Quanto alla gradazione alcolica dei vini, è evidente che con questi dati se si vogliono produrre vini equilibrati e strutturati da uve giunte a maturazione armonica, lo scotto da pagare sarà sempre una gradazione alcolica medio-alta. Con buona pace delle mode e degli stili aziendali.

lunedì 18 febbraio 2008

Sui lieviti indigeni

Ho già scritto che il 2007 è stata la prima annata in cui l'intero processo di vinificazione di tutti i vini da me prodotti è stato condotto con metodi naturali, ovvero con basse dosi di anidride solforosa, assenza di coadiuvanti di fermentazione, di tannini, enzimi, lieviti selezionati.
E' però già la quarta vendemmia che per i vini da "invecchiamento", cioé Gli Eremi e Nocenzio, utilizzo solo lieviti indigeni. Posso, quindi, iniziare a fare un bilancio provvisorio di questa esperienza, basato su prove dirette e non sulle esperienze e raccomandazioni altrui.
Inizio col dire che quest'anno ho avuto, e ho tuttora, seri problemi di fermentazione, con vini ancora dolci e acidità volatili mediamente più elevate rispetto al solito. Se l'ultimo aspetto, preoccupante, appare come tipico di questa annata, ed è legato probabilmente ad un uso troppo limitato di solforosa nella fase iniziale di selezione dei lieviti indigeni, la difficoltà nel portare a termine le fermentazioni non sono una novità per il vino bianco (situazione differente rispetto alle vinificazioni in rosso, sia di uve bianche che di uve rosse). Mai, però, era accaduto di avere a febbraio un residuo zuccherino come quello di quest'anno.
Una spiegazione plausibile è, a mio avviso, lo stress sopportato dalle piante durante le due ondate di caldo africano con temperature fino a 40° e mancanza di acqua. E' probabile che sia la flora batterica sia la carica di azoto in grado di nutrire i lieviti siano state in qualche modo stressate da una situazione simile. Ma è ovviamente solo una sensazione.
La domanda è: qual è la ragione per l'utilizzo di lieviti indigeni, posto che a livello di salute per il consumatore l'inoculo di lieviti selezionati è assolutamente senza problemi? Genericamente si sostiene che i lieviti indigeni esprimano meglio il terroir. Questa interpretazione è controversa. I sostenitori della moderna tecnica enologica sostengono che non è dimostrabile che le fermentazioni avvengano naturalmente grazie a lieviti propri della vigna, ma che avvengano invece in seguito ad una serie di contaminazioni microbiche pre-esistenti (nell'aria, in cantina, negli attrezzi, nelle botti, ecc.).
Gli studi di Jules Chauvet, grande enologo francese padre della viticoltura naturale, chiariscono come i lieviti indigeni, purché ben selezionati e gestiti, esprimano davvero qualcosa in più. In particolare, sostiene Chauvet, mentre la scelta dei lieviti non incide sul "carattere fondamentale del vino", cha nasce dall'interazione fra vitigno, suolo e condizioni meteo, essa risulta importante nella modulazione di "tonalità differenti", cioé di armonie e timbri che ampliano la qualità di un vino. Si potrebbe dire, cioé, che i diversi lieviti incidano nella creazione di una maggiore complessità.
Se, quindi, seguendo Chauvet, si può affermare che l'espressione del terroir non dipende direttamente dai lieviti indigeni, i quali semmai danno qualcosa in più alla complessità di un vino, dovrebbe apparire evidente come il loro uso ha senso nel momento in cui tale qualità aggiuntiva non viene compromessa da problematiche come l'acidità volatile alta o forme di inquinamenti batterici. I quali, giocoforza, deviano il vino dalle caratteristiche fondamentali tipiche dell'origine.
Applicando questo ragionamento alle mie esperienze, ciò significherebbe utilizzare i lieviti indigeni sempre e comunque sui vini macerati (bianchi e rossi); mentre solo nelle annate migliori per quanto concerne i bianchi a pressatura soffice, e solo dopo una accurata gestione del pied de cuveè con dosi adeguate di solforosa.
Questo approccio è certamente molto poco integralista, rispetto al mondo del vino naturale, ma certamente più coerente rispetto all'obiettivo di fare vini che esprimano al meglio il suolo e l'annata, senza distorsioni. Che siano esse correzioni di cantina o difetti più o meno evidenti.
Sono riflessioni da tenere ben presenti, soprattutto considerando come molti studi dimostrino che vi siano differenze notevoli, dipendenti da clima e geografie, nello sviluppo, nella diffusione e nella selezione della flora batterica (si pensi solo alla varianza dei pH) e che, quindi, ogni vignaiolo dovrebbe muoversi in base alle proprie esperienze e problematiche e non secondo rigidi dettami ideologici.

lunedì 11 febbraio 2008

American movies

Due grandi film americani: al cinema ho visto Into the wild di Sean Penn; in DVD, invece, Reign over me di Mike Binder.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.

mercoledì 6 febbraio 2008

Austria, Italia e altre cosette.

Appena tornato da una breve vacanza in Austria, sul lago di Ossiach. Nonostante il cattivo tempo abbiamo apprezzato la Carinzia, i suoi paesaggi boschivi, i suoi laghi, le sue montagne. Nulla in confronto alle nostre bellezze italiche. Ma i sentieri nei boschi sono segnalati in modo incredibile, vi sono piste ciclabili ovunque, alberghi e attrattive turistiche sono a misura di bambino, pulizia e ordine regnano sovrane, il servizio è ovunque gentile, il rispetto per l'ambiente pare sacro. Insomma il turista, a differenza che da noi, ritrova un territorio integro e ben organizzato. Che non è poco. Un unico appunto: si fuma ovunque nei locali pubblici, ed è l'unico esempio di superiore civiltà italiana. Addirittura, nonostante fosse consentito, alcuni italiani sono usciti dall'albergo per fumare. Mi sono sentito orgoglioso.
Degustato un ottimo Gruner Veltliner Holzgasse 2006 dell'azienda Buchegger: al naso, su fondo nettamente minerale, spiccate note di lievito e crosta di pane e finissime sensazioni agrumate (cedro, lime) e di fiori bianchi; in bocca molto sapido, freschissimo, con esaltante acidità di mela verde e chiusura tostata di nocciola, di lunga persistenza.
Nel frattempo, fra saune, corse nei boschi e cambi di pannolini, ho letto un libro stupendo. Senior Service di Carlo Feltrinelli è la biografia del padre Giangiacomo, l'editore. E' una biografia approfondita, basata su ricerche d'archivio e ricostruzioni storiche, poiché Carlo aveva solo dieci anni quando il padre morì, nel 1972, ucciso dalla sua folle lotta per un mondo più giusto. Il fatto è che Giangiacomo Feltrinelli ha vissuto una vita tale e in un periodo tale della storia d'Italia che il libro risulta avvicente, profondo, carico di suggestioni. Specie nella parte che va dal primo dopoguerra ai primi anni sessanta emerge il ritratto di un paese dalla incredibile vivacità intellettuale e culturale. Di una politica fatta di grandi scontri ideologici ma anche di splendide storie quotidiane. Che stride fortemente con la realtà attuale, lasciando quello stesso amaro in bocca, per ciò che siamo stati e che non siamo più, che mi aveva lasciato un altro bellissimo libro, in qualche modo parallelo a questo, ovvero La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda.
Consoliamoci con l'Italia del pallone. Adoravo Donadoni da giocatore. Ma devo ammettere che non pensavo sarebbe riuscito a creare una Nazionale così bella da vedere, che gioca a memoria e non ha paura di attaccare. Piena finalmente di giovani che hanno una voglia pazza di spaccare le zolle del campo e non di vecchie glorie stanche pronte alla pensione. Mi aspetto un ottimo europeo in Svizzera e... Austria.