lunedì 18 febbraio 2008

Sui lieviti indigeni

Ho già scritto che il 2007 è stata la prima annata in cui l'intero processo di vinificazione di tutti i vini da me prodotti è stato condotto con metodi naturali, ovvero con basse dosi di anidride solforosa, assenza di coadiuvanti di fermentazione, di tannini, enzimi, lieviti selezionati.
E' però già la quarta vendemmia che per i vini da "invecchiamento", cioé Gli Eremi e Nocenzio, utilizzo solo lieviti indigeni. Posso, quindi, iniziare a fare un bilancio provvisorio di questa esperienza, basato su prove dirette e non sulle esperienze e raccomandazioni altrui.
Inizio col dire che quest'anno ho avuto, e ho tuttora, seri problemi di fermentazione, con vini ancora dolci e acidità volatili mediamente più elevate rispetto al solito. Se l'ultimo aspetto, preoccupante, appare come tipico di questa annata, ed è legato probabilmente ad un uso troppo limitato di solforosa nella fase iniziale di selezione dei lieviti indigeni, la difficoltà nel portare a termine le fermentazioni non sono una novità per il vino bianco (situazione differente rispetto alle vinificazioni in rosso, sia di uve bianche che di uve rosse). Mai, però, era accaduto di avere a febbraio un residuo zuccherino come quello di quest'anno.
Una spiegazione plausibile è, a mio avviso, lo stress sopportato dalle piante durante le due ondate di caldo africano con temperature fino a 40° e mancanza di acqua. E' probabile che sia la flora batterica sia la carica di azoto in grado di nutrire i lieviti siano state in qualche modo stressate da una situazione simile. Ma è ovviamente solo una sensazione.
La domanda è: qual è la ragione per l'utilizzo di lieviti indigeni, posto che a livello di salute per il consumatore l'inoculo di lieviti selezionati è assolutamente senza problemi? Genericamente si sostiene che i lieviti indigeni esprimano meglio il terroir. Questa interpretazione è controversa. I sostenitori della moderna tecnica enologica sostengono che non è dimostrabile che le fermentazioni avvengano naturalmente grazie a lieviti propri della vigna, ma che avvengano invece in seguito ad una serie di contaminazioni microbiche pre-esistenti (nell'aria, in cantina, negli attrezzi, nelle botti, ecc.).
Gli studi di Jules Chauvet, grande enologo francese padre della viticoltura naturale, chiariscono come i lieviti indigeni, purché ben selezionati e gestiti, esprimano davvero qualcosa in più. In particolare, sostiene Chauvet, mentre la scelta dei lieviti non incide sul "carattere fondamentale del vino", cha nasce dall'interazione fra vitigno, suolo e condizioni meteo, essa risulta importante nella modulazione di "tonalità differenti", cioé di armonie e timbri che ampliano la qualità di un vino. Si potrebbe dire, cioé, che i diversi lieviti incidano nella creazione di una maggiore complessità.
Se, quindi, seguendo Chauvet, si può affermare che l'espressione del terroir non dipende direttamente dai lieviti indigeni, i quali semmai danno qualcosa in più alla complessità di un vino, dovrebbe apparire evidente come il loro uso ha senso nel momento in cui tale qualità aggiuntiva non viene compromessa da problematiche come l'acidità volatile alta o forme di inquinamenti batterici. I quali, giocoforza, deviano il vino dalle caratteristiche fondamentali tipiche dell'origine.
Applicando questo ragionamento alle mie esperienze, ciò significherebbe utilizzare i lieviti indigeni sempre e comunque sui vini macerati (bianchi e rossi); mentre solo nelle annate migliori per quanto concerne i bianchi a pressatura soffice, e solo dopo una accurata gestione del pied de cuveè con dosi adeguate di solforosa.
Questo approccio è certamente molto poco integralista, rispetto al mondo del vino naturale, ma certamente più coerente rispetto all'obiettivo di fare vini che esprimano al meglio il suolo e l'annata, senza distorsioni. Che siano esse correzioni di cantina o difetti più o meno evidenti.
Sono riflessioni da tenere ben presenti, soprattutto considerando come molti studi dimostrino che vi siano differenze notevoli, dipendenti da clima e geografie, nello sviluppo, nella diffusione e nella selezione della flora batterica (si pensi solo alla varianza dei pH) e che, quindi, ogni vignaiolo dovrebbe muoversi in base alle proprie esperienze e problematiche e non secondo rigidi dettami ideologici.

9 commenti:

Anonimo ha detto...

Secondo studi di molti microbiologi che si possono trovare sullo "Zambonelli", il discorso sui lieviti indigeni è molto complesso. Se da un lato è vero che nella bacca SANA non vi è un'alta (attenzione non ho detto assenza) presenza di Saccharomyces Cerevisiae, questo lieviti elittico si trova con molta probabilità sulla superficie del terreno ed più riscontrabile con forme di allevamento basse (Alberello:-), la presenza di Saccharomyces aumenta però nelle bacce rotte, portati da moscerini o altri insetti. Se, la percentuale di bacce danneggiate è anche dell'1 x 1000, nei mosti si ha per S. Cerevisae un carico iniziale di 100-1000 cellule che sono decisamente sufficienti per permettere il termine della fermentazione. Non è vero, almeno nel 2007 che i lieviti adatti alla fermentazione sono già presenti in cantina secondo teorie che qualcuno riporta, in quanto al giorno d'oggi la pulizia e l'utilizzo di SO2 ha decisamente danneggiato la microflora di cantina. Durante la ferementazione devi sapere che per i primi 4° Alcolici hanno il sopravvento solo i lieviti apiculati (Kloeckera apiculata) e solo successivamente subentrano i S. Cerevisiae più resistenti all'alcool. L'utiliizzo di SO2, seppur in dosi minimi è particolarmente sconsigliato perchè rallenta di molto la fermentazione di quest'ultimi e causa la morte degli apiculati. Sarrebe pertanto il caso, da ciò che ho dedotto, di provare un inoculo di apiculati per cominciare la fermentazione con dosi di SO2 molto limitate e permettere poi il successivo proliferarsi di S.Cerevisiae visto e considerato che i lieviti autoctoni non giocano un ruolo così fondamentale sulla qualità dai vini ma è anche vero che quelli selezinati non sono tipici del terroir.
A presto

Corrado Dottori ha detto...

Il problema è sì molto complesso. Quello che sostieni sugli apiculati è verissimo ma il problema della solforosa è che, a parte le zone molto fredde, dove si hanno pH dei mosti medio alti non c'è una copertura "antisettica" naturale e dunque con solforosa troppo bassa il mosto è aggredito da bestie più o meno incontrollate che sono la causa di acetato di etile o acidità volatile fuori controllo. E gli apiculati stessi, a quanto pare, sono molto più "selvaggi" dei saccaromiceti. Più rock'n'roll. Più punk, se vuoi. Il fatto è che dopo ti ritrovi con la stanza d'albergo distrutta...

Anonimo ha detto...

Insomma dei piccoli "Rolling Apuculates" altezzosi come i fratelli Gallagher... Zambonelli invece dice che altri tipi di lieviti non dovrebbero partire con PH compresi tra 3 e 3,5 e se comunque usi gli Apiculati come integrazione poi le fermentazioni scalari con il Risveglio dei S. Cerevisiae dovrebbero avere il sopravvento e tutti gli altri tipi di batteri o meglio tutti gli altri Sid Vicious non dovrebbero uscire anche senza SO2. Angiolino Maule sta facendo studi in materia.

Anonimo ha detto...

Non mi avventuro su questo terreno che conosco solo superficialmente, ma ricordo che a dicembre , qui da noi salvo foti parlo a lungo di questo argomento con alcuni amici e faceva riferimento ad un lavoro serio e costato molta fatica e denaro svolto dall' azienda benanti... voi ne sapete qualcosa ??
Rui

Corrado Dottori ha detto...

No, non conosco il lavoro dell'azienda Benanti. Anzi, mi piacerebbe saperne di più.

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie