giovedì 27 marzo 2008

Brunello e consorzi

E' di questi giorni la notizia, data per primo da Franco Ziliani (leggi qui), e poi rimbalzata su blog e siti italiani e stranieri, di una importante inchiesta della Procura di Siena riguardante alcuni produttori di Brunello di Montalcino. Pare che questi produttori abbiano utilizzato uve differenti dal Sangiovese, che per il disciplinare è l'unica uva ammessa. Ancora è da capire se questi Brunello venissero tagliati con vini del Sud, in particolare pugliesi, o se venissero impiegati vitigni differenti dal Sangiovese ma piantati a Montalcino. In ogni caso trattasi di frode in commercio. Frode grave, vista l'importanza della Denominazione in questione, forse la più blasonata all'estero.
Questa notizia mi porta a ricordare una battaglia condotta insieme all'amico Alessandro Starrabba della Cantina Malacari contro i decreti ministeriali che fin dal 2001 hanno delegato ai Consorzi di Tutela i poteri di controllo sulle denominazioni di origine. Estendendo tali poteri "erga omnes", ovvero sia nei confronti degli associati al Consorzio sia dei non associati. (Ricordo che per effettuare tali controlli viene anche richiesta la consueta italiana gabella che, ovviamente, non è sostitutiva di quanto già dovuto alle Camere di Commercio per i prelievi destinati alle commissioni di degustazione, bensì aggiuntiva).
Con Alessandro ed altri produttori marchigiani denunciammo al TAR del Lazio quello che a noi sembrava e tuttora sembra un sistema assurdo, ovviamente perdendo la causa perché questo è un paese civile e liberale... Quanto accade a Montalcino in questi giorni, e che potrebbe accadere ovunque e per qualunque denominazione (si pensi alla analoga questione che riguarda la Frascobaldi ), dimostra invece che avevamo ragione.
Le denominazioni di origine sono un bene comune. Esse sono infatti l'insieme di un territorio, dei vitigni autorizzati ad essere coltivati sul quel territorio per produrre il vino a denominazione e di regole che i produttori si sono date in base alla tradizione. Affidare il controllo a un ente privato, quale un Consorzio di tutela, altro non significa se non privatizzare un bene collettivo. Questa dinamica è rafforzata dal fatto che nei Consorzi i voti non sono tutti uguali: il grande produttore pesa di più, poiché i voti vanno di pari passo con gli ettari rivendicati a DOC. Cioé si mette in mano la denominazione di origine ai grandi industriali.
Vi chiederete: tutto qui? No, perché molto spesso i Consorzi nominano Presidenti o Direttori enologi legati alle grosse aziende che fanno consulenze per molte delle aziende associate. Dunque affidare il Controllo sulla denominazione di origine a queste persone significa sostanzialmente far coincidere il controllore con il controllato, venendo meno ogni ipotesi di terzietà che è basilare in ogni certificazione (chi fa il biologico ne sa qualcosa...). Tutto qui? No. Perché in nome della "tracciabilità" spesso si propongono sistemi informatici per le cantine che, guarda caso, sono prodotti da aziende vicine ai consorzi stessi. Ma non voglio farla lunga.
Il risultato di questo sistema è che i grandi industriali del vino (coloro che hanno interesse a barare) controllano i piccoli vignaioli (coloro che lavorano con serietà e rispetto dell'origine); che spesso il potere di controllo si trasforma, non si sa bene perché, in potere coercitivo: moltissimi produttori hanno paura di contestare questo sistema perché temono che poi i loro vini abbiano problemi nell'ottenere le autorizzazioni all'imbottigliamento; che i consumatori non hanno sufficienti garanzie sul fatto che ciò che bevono corrisponda a quanto stampato in etichetta.
Stupirsi di fronte a quanto sta accadendo a Montalcino è da ingenui. Ciò che si dovrebbe fare non è tanto scandalizzarsi quanto muoversi per riuscire a costruire un movimento che veda uniti i produttori onesti, i consumatori, i giornalisti seri e indipendenti. Un movimento che si ponga l'obiettivo di ridare alla collettività le denominazioni di origine, di riformare questo sistema sbagliato che trova consensi bi-partisan (da Pecoraro ad Alemanno a De Castro, per intenderci), di costruire un nuovo impianto al contempo meno burocratico (autocertificazione dell'origine) e più certo (controlli severissimi sul prodotto imbottigliato). Magari ripartendo dalle intuizioni veronelliane sulle Denominazioni Comunali.

venerdì 21 marzo 2008

La degustazione perfetta

Per il secondo anno consecutivo sono stato invitato ad una serata davvero speciale. Si svolge durante la Pro-wein a casa di Ulf Nilsson, grande appassionato di vini, nonché neo enotecario nella zona di Colonia. La sua cantina è davvero una chiesa pagana dedicata alla cultura del vino. Quello che accade in questa serata è un gioco affascinante e difficile. Mangiando dell'ottimo cibo Ulf serve ai commensali una serie di vini provenienti dalla sua cantina, rigorosamente alla cieca. E da lì parte un confronto collettivo, una prolungata ricerca fatta di discussioni, illuminazioni, castronerie e calcoli che dovrebbe portare, e a volte porta, alla scoperta del vino servito nel bicchiere. Vitigno, zona, età presunta. Un incubo. O un sogno meraviglioso. A seconda della compagnia e dell'approccio alla cultura del vino. Già lo scorso anno si era tornati in albergo col ricordo di una serata indimenticabile. Ma quest'anno siamo anche oltre. Questi i vini degustati nella sequenza originale (purtroppo spesso non ho segnato i produttori):
Cremant de Loire 2000, Riesling Sekt Mosel Franz Kern 2000, Dom Perignon 1990, Riesling 2005 Maastcht Olanda, Albarino Rias Baixas 2006, Pouilly Fumé 1998, Borgogna Pinot Noir 1999, Pinot Noir Alsazia 2000, Castellao Portogallo 2005, Shiraz Australia 1992, Brunello di Montalcino Lisini 1982, Chateau Palmer Margaux 1985, Volnay 1964, Barolo Borgogno 1958.
Potrei per molti di questi vini azzardare una descrizione ma mi pare noioso e superfluo. Quello che posso dire è che al ritorno, ore 4 della mattina, c'era in noi davvero la sensazione di avere aperto bottiglie indimenticabili e uniche. Per la cronaca, a fronte di grossi problemi col vino olandese, con i portoghesi, col Brunello e con il Pinot nero alsaziano, devo dire che mi sono mosso abbastanza bene, nonostante un fastidioso raffredore, arrivando spesso nei dintorni del vino giusto e, soprattutto azzeccando i tre vini che costituiscono il mio podio ideale: per il Dom Perignon avevo ipotizzato uno champagne a preponderanza di Pinot Noir di dieci anni (ne aveva quasi il doppio e sembrava ancora un bambino!); per il Margaux avevo detto un grande Bordeaux della zona del Medoc con preponderanza di Cabernet Sauvignon; per il Borgogno avevo candidamente dato come risposta unica un barolo degli anni cinquanta/sessanta. Mi pare che questo denoti in modo inequivocabile una volta di più la grandezza di quei vini: tutti e tre avevano una incredibile identità territoriale, una incredibile e irripetibile unicità nel rapporto vitigno/territorio/annata. Amen.

mercoledì 19 marzo 2008

Prowein 2008

Aereo per Dusseldorf. Un grosso industriale del vino spiega la sua filosofia ad un suo simile.
"In momenti come questi è bene non avere troppi vigneti. Sono costi fissi... Invece vai in Puglia o in Abruzzo compri tutto quelle che ti serve... Sangiovese, tac! Al limite sistemi con due chips quello che non funziona, e sei a posto. Abbatti i costi". L'altro annuisce. Con buona pace dei consumatori, delle etichette e dei Consorzi di Tutela.
Sono appena rientrato dalla ProWein. Il bilancio è positivo. I vini sono piaciuti. Gli ordini arrivano. C'è grande attenzione, mi pare, per vini con una spiccata identità. E poi il Reno è meraviglioso, la birreria Urege è un pezzo di storia e la compagnia di Alessandro (Cantina Malacari) e degli altri Piccoli Produttori (Grandi Vini) è sempre molto divertente. Ovviamente ci sarebbero parecchie cose da raccontare, in particolare una memorabile serata enologica, alcuni Riesling tedeschi, un ristorante da evitare con cura. Ne parlerò con calma... La domanda stasera è un'altra. Retorica, ovviamente. Perché alla ProWein non si fanno code, si parcheggia in 30 secondi, tutto è perfettamente organizzato, i bagni sono puliti, il biglietto della fiera vale per tutti i mezzi pubblici dell'intera renania, ferrovia compresa? Forse per la stessa ragione per cui le autostrade in Germania non si pagano e sono in condizioni ottime, i giardini pubblici sono belli e curatissimi e dall'alto di un aereo non si fa altro che vedere pannelli solari sui tetti e grandi mulini a vento sparsi per la campagna? Forse per la stessa ragione per cui la gente è civile, gentile e rispettosa del "bene comune"? Considerando che fra poco invece ci toccherà ritornare a Vinitaly, che è esattamente l'opposto di tutto ciò, c'è ben poco da stare allegri. Ovviamente è solo una opinione personale perché tanto noi continuiamo a ripeterci che siamo italiani, brava gente, pizza e mandolino, creativi, e anche campioni del mondo. Dunque va bene così.

giovedì 13 marzo 2008

Dalla terra per la Terra: Contadini Critici

L’agricoltura contadina è stata, da sempre, custode dei saperi e sapori della terra. Con l’avvento della società dei consumi, imperniata sull’industria e sullo sviluppo urbano, essa è rimasta un presidio fondamentale del territorio e del gusto, l’ultimo baluardo per la salvaguardia di antichi saperi, di tradizioni eno-gastronomiche, di varietà e specie locali, di beni collettivi, di territori e paesaggi agricoli.
Questo mondo, nonostante la dilagante retorica dei "prodotti tipici", è oggi fortemente attaccato da ogni parte e paga una profonda subalternità nei confronti della società urbanizzata.
In primo luogo, infatti, vi è un esproprio di valore che la distribuzione commerciale compie quotidianamente nei confronti del lavoro agricolo, grazie a consumatori oramai sempre più addomesticati dai messaggi del marketing.
In secondo luogo vi è il tentativo dell’agro-industria di modificare i prodotti stessi della terra, attraverso l’omologazione del gusto, la selezione e modificazione delle sementi e delle specie (fino agli OGM), la rottura del legame col territorio attraverso la negazione dell’origine e la preferenza per il concetto di "ultima trasformazione sostanziale".
Infine, come ultimo atto di questo accerchiamento, l’industria e lo Stato approfittano della dissoluzione delle comunità agricole per sferrare l’attacco al territorio in termini di sfruttamento dei suoli e devastazione ambientale a fini urbanistici, industriali e speculativi.
In Europa ogni tre minuti scompare un’azienda agricola, circa 600 ogni giorno, 250.000 ogni anno. Nel nostro Paese, i dati dell’ultimo censimento ISTAT, mostrano come siano in diminuzione il numero totale delle aziende a vantaggio delle dimensioni delle aziende superstiti. Si va sempre di più verso un’agricoltura industrializzata, con pochi addetti occupati e un enorme uso di mezzi tecnici e chimici, macchinari, energia; quindi enormemente più inquinante e dissipatrice di energia della tradizionale azienda contadina.
Oggi l’agricoltura industriale non produce per nutrire le popolazioni, ma per alimentare l’industria ed il commercio connesso. Il maggior profitto dell’industria agro-alimentare avviene nel processo di trasformazione, confezionamento e commercializzazione del prodotto.
Le quotazioni all’origine della frutta sono calate, nel 2005 rispetto al 2004, del 7,9%, mentre quelle di verdure ed ortaggi del 6,8%; complessivamente i listini dei prodotti agricoli sono scesi negli ultimi dodici mesi del 4%. In una regione ad agricoltura "ricca" come l’Emilia Romagna, si è calcolato che il reddito delle aziende agricole si è dimezzato negli ultimi 5 anni, ossia diminuisce del 10% l’anno. Per ogni euro di spesa in consumi alimentari, più della metà è assorbito dalla distribuzione finale.
In questo contesto si collocano le politiche di stampo corporativo e neo-liberista sviluppate dall’Unione Europea in questi ultimi anni. La legislazione europea in fatto di PAC, leggi igienico-sanitarie, certificazioni BIO, marchi e disciplinari di qualità, ha rafforzato le dinamiche di dissoluzione dell’organizzazione sociale contadina a vantaggio delle grandi industrie agro-alimentari (si ricorda che l’80% dei sussidi comunitari è andato al solo 20% delle aziende più grandi). Questo è avvenuto con il benestare di tutte le associazioni di categoria cui è interessato semplicemente che arrivassero finanziamenti da gestire, indipendentemente da ogni ragionamento sull’agricoltura di tipo sociale, culturale, ambientale.
Il risultato di queste dinamiche è oggi sotto gli occhi di tutti: i casi della mucca pazza e di Parmalat dimostrano che non sappiamo cosa mangiamo e che cosa ci sia dietro i bilanci delle grandi aziende; DOP, IGP, Presidi, marchi di qualità servono fondamentalmente alla vorace agro-industria ad occupare ogni pur piccola nicchia di mercato; l’omologazione dei gusti imposta dal grande commercio porta all’omologazione dei modi di produrre e delle varietà utilizzate; l’industrializzazione delle campagne ha creato un legame perverso con l’industria chimica producendo una incredibile perdita di fertilità dei suoli, oltre all’inquinamento dei terreni e delle acque; la proposta di riforma dell’Organizzazione Comune di Mercato, per quanto riguarda il settore vinicolo, sostanzialmente ha l’obiettivo di ridurre il vino a mera bevanda industriale, in nome della competizione (di prezzo) sui mercati globali.
Ogni realtà contadina vive oggi sulla sua pelle le contraddizioni di legislazioni fatte su misura per l'agro-industria: HACCP, tracciabilità, controlli per le DOC, certificazioni Bio, PAC, tutto quanto si tiene insieme per coalizzare le grandi industrie, raccogliere sussidi, creare problemi di natura burocratica, fiscale e sanitaria di ogni genere. Per quanto riguarda specificatamente il mondo del vino, ad esempio, la creazione dei Consorzi di tutela con compiti di controllo erga omnes (decreti attuativi della legge 164 del 1992) è l’ultimo esempio di questa politica perversa e corporativa. Consorzi di Tutela divenuti strumenti di coercizione in mano alle lobby dell’industria vinicola.
Vi sono una serie di rivendicazioni che vengono oggi dal mondo agricolo che coinvolgono il sistema dei prezzi e della distribuzione commerciale ma che si caricano di valenze sociali e culturali molto più vaste e che devono in qualche modo farsi resistenza. Tale resistenza implica un nuovo protagonismo contadino, oggi molto più attivo nei paesi del terzo mondo che in Europa.
In questi ultimi anni alcuni semi sono stati lanciati, ad esempio dal progetto Terra e Libertà/Critical Wine, dalla Associazione Contadinicritici o dal Foro Contadino. Ma anche dalle associazioni di produttori naturali o biologici, da gruppi di contadini impegnati per un’altra agricoltura, da progetti per la costruzione di filiere corte, dai numerosi gruppi di acquisto solidale nati in questi anni. Si tratta ora di tirare le fila, di riunire le istanze e le rivendicazioni intorno a una piattaforma condivisa.
Vi sono alcuni punti irrinunciabili: l’origine; l’autocertificazione; il prezzo sorgente; i mercati contadini, intesi come immediata realizzazione della “filiera corta”.
In primo luogo bisogna affermare con forza che i prodotti agro-alimentari non sono merci come le altre. Per questo non è possibile accettare la logica delle certificazioni di qualità applicate ai prodotti industriali ma, viceversa, va invocato il principio dell’origine, cioè del legame assoluto col territorio. Questo è il solo principio valido nell’identificare un prodotto agricolo poiché ne valorizza il territorio e le genti che vi abitano e che hanno contribuito alla evoluzione di una determinata qualità/specie.
In secondo luogo va ricostruito un rapporto diretto fra produttori e consumatori, un rapporto completamente sconvolto dalla logica dei “centri commerciali”: vanno proposti e creati Mercati Contadini autonomi ed auto-gestiti, ove non vi siano spazi fissi assegnati, ma dove ad ognuno sia consentito anche saltuariamente o stagionalmente proporre le proprie produzioni. Vanno incentivate tutte le forme possibili di distribuzione diretta, come i Gruppi di Acquisto Solidali o la produzione per famiglie su prenotazione.
In terzo luogo il rapporto fra produttori e consumatori oltre che diretto deve essere trasparente. Ma nessuna certificazione è più utile e responsabile di una auto-certificazione in cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro ed il capitale, come vengono trasformati i prodotti. Pensiamo a una bottiglia di vino: è sottoposta a una miriade di controlli ma nessun consumatore può davvero sapere, ad oggi, che cosa sia contenuto nel vino. L’auto-certificazione implica una assunzione di responsabilità. Ed obbliga i controllori a verificare il prodotto piuttosto che a controllare le carte e a moltiplicare la burocrazia.
Infine, il prezzo sorgente. O prezzo alla fonte. Il consumatore deve poter conoscere i prezzi medi cui l’agricoltore vende i propri prodotti. Immediatamente sarebbero visibili i ricarichi e l’estrazione del plusvalore da parte della filiera distributiva nei suoi passaggi. Il prezzo sorgente non è contro il mercato. E’ per un mercato più trasparente ed equo.
Su questi punti essenziali si gioca la partita per la costruzione dell’agricoltura del futuro: una agricoltura sana, naturale, sostenibile. Praticata da contadini che presidiano il territorio, ne difendono le specificità, ne custodiscono la storia e le tradizioni. Una agricoltura opposta da quella immaginata a Bruxelles o nelle stanze dell’attuale Ministero dell’Agricoltura.

giovedì 6 marzo 2008

Varie ed eventuali

Stasera, come già detto, sarò a Pratovecchio nella tana degli orsi, sabato sera invece a Perugia presso il circolo ARCI "Island" in via Magno Magnini , angolo via Gallenga. Inizio della degustazione alle ore 20.00. Il 15 marzo partirò per Dusseldorf dove si tiene la fiera Pro-Wein. Mi sembra di essere in tourneé, come una rockstar. Peccato che non ci siano groupies assatanate in circolazione... Nel frattempo siamo passati dai 25 gradi di lunedì ai 2 gradi di ieri. La Primavera è già qui. E poi dicono che non esistono più le mezze stagioni. Sto orecchiando via internet al nuovo dei Black Crowes che è uscito il 4 marzo. Credo che prenoterò il vinile, se esiste, e poi ve lo racconterò. Nel frattempo (numero 2) le date americane sono sold-out e in Europa per ora vengono solo ad Amsterdam (guardacaso!) e a Londra. Nel frattempo (numero 3) proseguo a correre, che la maratona si avvicina, 30 marzo, indeciso fra Treviso e Montecarlo, la prima fa molto Prosecco di Valdobbiadene, la seconda - ça va sans dire - Champagne millesimato. Chissà. Nel frattempo (numero 4) vi segnalo un produttore fra quelli incontrati nel giro in borgogna: Hubert Chavy Chouet. Il Mersault 2006 è acidissimo con sentori nitidi di crema pasticcera, scorza di limone, zucchero a velo. Un vino che terrà la schiena dritta per anni e anni. Il Pommard 2006 ha un naso pulitissimo, fresco, fragrante. Sentori di fragolina di bosco e lampone conducono a un ingresso in bocca che racconta di una acidità fissa micidiale e di tannini potenti e ancora astringenti che necessiteranno di molto tempo per esprimersi al meglio. Ma c'è un grande potenziale.