giovedì 30 ottobre 2008

Barack Obama ed il sogno americano

Ho già parlato di Obama in questo blog. L'ho fatto quando ancora sembrava impossibile la sua vittoria alle primarie. Almeno dal 2004, quando tenne un notevole discorso alla convention democratica per John Kerry, ho seguito la carriera di questo politico. Il motivo è semplice: Barack Obama rappresenta, nel bene e nel male, il sogno americano. Che si ami l'America o che la si odi, quel che è certo è che questa idea è stata uno dei perni centrali dell'egemonia economica e culturale degli Stati Uniti nel secolo scorso. Non so se sarà così in futuro ancora. Non lo credo. E però la figura di Obama riporta al centro del discorso politico la capacità delle società e delle comunità di offrire delle "possibilità". Al centro del sogno americano non sta tanto l'idea di "successo", che invece è una sua fuorviante degenerazione, ma l'idea che ciascun essere umano ha diritto almeno ad una possibilità. E qui sta anche la misura del suo fallimento: perché Obama è in realtà l'eccezione in un paese che, al contrario, ha smesso da tempo di offrire possibilità e scelte ai suoi cittadini ed ai cittadini del mondo.
Mi piace molto la capacità dialettica, la retorica, del candidato democratico. Non sono d'accordo con molte delle sue idee. Certamente non è un pericoloso estremista di sinistra come cercano di descriverlo i Repubblicani. Al contrario, è un moderato. Ma la sua importanza, la sua forza devastante, è quella di rappresentare, anche fisicamente, il cambiamento, dopo i disastri degli ultimi otto anni. 
Ricordo perfettamente la prima elezione di Bush (ero in partenza per l'Etiopia, con mio padre, ne parlammo a lungo, sorpresi) - tra l'altro sto leggendo il bellissimo Uomo nel buio di Paul Auster che colloca quell'evento all'inizio di una immaginaria, ma neanche tanto, nuova guerra civile amaricana. 
Ricordo la seconda elezione di Bush, dopo essere stato in America con l'amico Daniele Tenca a sostenere John Kerry partecipando al Vote for Change tour. Sembrava davvero che l'america democratica si fosse risvegliata.
Sono molto timoroso, quindi, nell'esprimere giudizi sul prossimo voto. Non mi fido dei sondaggi, né del sistema elettorale americano. 
Ma se Barack Obama verrà eletto, so che come Presidente degli Stati Uniti d'America avrà una cosa che non è appartenuta a nessuno dei suoi predecessori. Non è il colore della pelle. E' l'indipendenza dal sistema delle lobby economiche. La campagna elettorale di Obama, infatti, per la prima volta nella storia è stata finanziata per la grandissima parte dalle donazioni di semplici cittadini, sostenitori, elettori. Questo fatto costituisce la vera novità del fenomeno Obama, il vero cambiamento, troppo spesso sottovalutato.

Recentemente Bruce Springsteen ha suonato per sostenere Obama in alcuni Stati "in bilico". Da solo, armato di chitarra acustica come un novello Woody Guthrie, ha raccontato le sue storie. Ma soprattutto ha fatto un discorso. Un grande discorso. Lo riporto qui perché rappresenta bene quello che significano queste elezioni per una parte d'America, per quella parte che si sente tradita, per quella vasta parte che ha dovuto mettere da parte i propri sogni:
"I've spent 35 years writing about America, its people, and the meaning of the American Promise. The promise that was handed down to us, right here in this city from our founding fathers, with one instruction: Do your best to make these things real. Opportunity, equality, social and economic justice, a fair shake for all of our citizens, the American idea, as a positive influence, around the world for a more just and peaceful existence.
These are the things that give our lives hope, shape, and meaning. They are the ties that bind us together and give us faith in our contract with one another.
I've spent most of my creative life measuring the distance between that American promise and American reality. For many Americans, who are today losing their jobs, their homes, seeing their retirement funds disappear, who have no healthcare, or who have been abandoned in our inner cities, the distance between that promise, and that reality, has never been greater or more painful.
I believe Senator Obama has taken the measure of that distance in his own life and in his work. I think he understands in his heart the cost of that distance, in blood and suffering, in the lives of everyday Americans.  I believe as president, he would work to restore that promise to so many of our fellow citizens who have justifiably lost faith in its meaning.
After the disastrous administration of the past eight years, we need somebody to lead us in an American reclamation project. In my job, I travel around the world, and I occasionally play big stadiums, just like Senator Obama. I've continued to find, whereever I go, that America remains a repository of peoples' hopes, possibilities, and desires, and that despite the terrible erosion to our standing around the world, accomplished by our recent administration, we remain for many, many people this house of dreams. One thousand George Bushes and one thousand Dick Cheneys will never be able to tear that house down.
They will, however, be leaving office -- that's the good news. The bad news is that they'll be leaving office dropping the national tragedies of Katrina, Iraq, and our financial crisis in our laps. Our sacred house of dreams has been abused, it's been looted, and it's been left in a terrible state of disrepair. It needs care; it needs saving, it needs defending against those who would sell it down the river for power or a quick buck. It needs a citizenry with strong arms, hearts, and minds. It needs someone with Senator Obama's understanding, temperateness, deliberativeness, maturity, compassion, toughness, and faith, to help us rebuild our house once again.
But most importantly, it needs you. And me. It needs us, to rebuild our house with the generosity that is at the heart of the American spirit. A house that is truer and big enough to contain the hopes and dreams of all of our fellow citizens. Because that is where our future lies. We will rise or we will fall as a people by our ability to accomplish this task. Now I don't know about you, but I know that I want my house back, I want my America back, and I want my country back".
Niente altro da aggiungere: voglio indietro il mio paese, dice Bruce. 
E verrebbe da dirlo anche a me.

domenica 26 ottobre 2008

Vini di vignaioli 2008

Domenica 3 e Lunedì 4 Novembre 2008 sarò come di consueto a Fornovo Taro per la bella Fiera Vini di Vignaioli. Qui di seguito il comunicato degli organizzatori:
"I tempi di "crisi" sono troppo spesso il pretesto di riflessi protezionistici con dei profumi di sciovinismo, se non di pura stupidità. La viticultura francese, solo per citarne una, non manca d’anatemi lanciati contro i vini "stranieri"… La realtà è che la linea di ripartizione del vino come nel resto, non sono le frontiere, ma i criteri di qualità e di autenticità. Diciamo così più semplicemente: la scelta tra il bene e il male, senza manicheismo esagerato, ma facendo riferimento solo al criterio valido: il lavoro del vignaiolo nelle sue esigenze di tradurre e interpretare il terreno che è suo: Vins de vignerons/Vini di Vignaioli. Il carattere inimitabile di un vino più vicino al suo terroir è tutto il significato del concetto della denominazione, che è la prima virtù a fare affidamento su valli, colline, sole, vento e pioggia piuttosto che ai confini amministrativi. 
E' raro - e ancora più prezioso - di vedere «coude à coude», bottiglia per bottiglia, nella stessa degustazione, dei vignaioli e dei vini di paesi cosi vicini e così diversi. Mettete il Beaujolais accanto alla Sicilia, la Champagne accanto alla Toscana, l’Alsazia accanto alla Sardegna, il Rodano accanto al Friuli, la Loira accanto al Veneto, e molti altri ancora: è bello in sé, come una spartito per orchestra con i suoi colori, sfumature e tonalità miste: è gratificante. Quelli che fanno il vino e quelli che amano degustarlo e berlo guadagnano una straordinaria comprensione delle cose, lontana dalle povere banalità dei fabbricante di bevande alcoliche".
Parole che bastano a rappresentare lo spirito della manifestazione.
Per altre informazioni: www.vinidivignaioli.com

giovedì 23 ottobre 2008

Tre grandi vini bianchi

Mi è capitato di bere in tre differenti occasioni alcuni vini decisamente buoni. Vorrei segnalarne tre in particolare. Sono tre vini bianchi che, a mio avviso, potrebbero convincere della grandezza della bacca bianca anche i più accaniti rossisti (fra i quali un tempo v'ero anch'io).
Chateauneuf du pape Vielles vignes 2005 Eric Texier. Degustato alla cieca, dapprima mi era parso un vino nordico, addirittura uno chablis o un alsaziano. E' un vino straordinario. Un assemblaggio di cinque vitigni, dominato dalla spiccata mineralità: idrocarburo ma anche pietra focaia e sasso. Dopo un pò è uscito un carattere "fluviale" ma sostenuto da una straordinaria sapidità e verticalità che non potevano farne un vino del Nord del Rodano. E poi erbe aromatiche, fiori delicatissimi, su uno sfondo di legno integrato in modo mirabile. Mi sono innamorato. Mi ricorda una gran dama francese, in vestito da sera, pronta per andare a teatro.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore San Michele 2006 Vallerosa Bonci. Un super classico delle mie parti. Vino che conosco molto bene, ovviamente, condividendone Crus ed enologo. Il 2006 subito non mi era piaciuto, così come non mi avevano entusiasmato il 2004 ed il 2005. Troppo morbidi e "piacioni". Riassaggiato pochi giorni fa mi è apparso incredibilmente buono: anch'esso con una nota stupefacente di kerosene e pietra (che generalmente esce nel Verdicchio dopo anni), su uno sfondo di agrumi, ginestra, acacia. La bocca è sì dominata da una morbidezza notevole (dovuta anche all'alcool imponente) ma chiude salato ed amarognolo come deve essere, con una lunga persistenza. Semplicemente il miglior Verdicchio assaggiato ultimamente. Come una giovane attrice italiana, molto bella, che ha ancora molto da imparare ma che ti lascia senza fiato.
Colli orientali del Friuli Galea 1999 I Clivi. E' un tocai friulano fatto al confine fra colli orientali e collio. Ne avevo già parlato. Mi era molto piaciuto a Vini di Vignaioli a Fornovo, dove spero di riuscirne ad avere qualche altra bottiglia. Bevuto con Valeria, ci è apparso ancora sulla cresta dell'onda, fresco, scattante. Nonostante le stupende note evolutive di mandorla, di miele, di frutta matura, in bocca è dritto, molto pieno, lunghissimo. La sua forza sta in una grande eleganza, nel perfetto equilibrio fra una acidità ancora viva, una densità notevole, la piacevolissima chiusura amarognola. Ma soprattutto in una facilità di beva legata non alla semplicità ma alla naturalità. Ti svegli al mattino e ti accorgi che la donna al tuo fianco è meravigliosa e bella esattamente come la sera prima, senza trucco, senza accorgimenti, senza travestimenti.   

domenica 19 ottobre 2008

Giudizi positivi

Dalla guida I vini d'Italia de L'Espresso:
"...Si consolida la personalità di alcuni produttori che urge aggregare al vertice della denominazione: Natalino Crognaletti e la sua Fattoria San Lorenzo, strenuo difensore del Verdicchio "di vigna"; come anche Corrado Dottori de La Distesa, carismatico paladino delle ragioni del vino naturale..."
E ancora: "Singolare figura di "contadino critico", con alle spalle solidi studi (e pubblicazioni) socio-economici, Corrado Dottori è un giovane vignaiolo, ma ha la consapevolezza di un veterano. Da una piccola parcella di vecchie vigne in contrada San Michele, firma alcuni tra i Verdicchio d maggiore persnalità oggi in commercio, ricchi di vibrazioni sapide ma sempre molto attenti alla naturalezza e alla bevibilità".
Giuro, non ho fatto alcuna marchetta... Il Terre Silvate 2007 si becca 17,5/20 e sale sul podio insieme a Natalino e a Bucci, mentre Gli Eremi 2006 prende 16,5/20 ed entra nella top ten. Il Nur 2006 si ferma a 15/20 che comunque è un buon punteggio. Al di là dei punteggi (continuo a pensare che le guide non dovrebbero esprimere punti o classifiche), mi fa molto piacere che l'apprezzamento del mio lavoro vanga da una guida che considero oggigiorno quella più autorevole e coraggiosa.
Un'altra bella recensione per Gli Eremi 2006 viene dalla giornalista Laura Rangoni (qui): 
"...Che piacevole sorpresa! È un verdicchio in purezza, con uve surmature poi maturato in legno. Sarà per questo che mi piace così tanto? Il legno? Il mio amato legno? Al naso subito avvolge con una profusione di fiori ed erbe aromatiche, tra le quali sembrano prevalere la salvia, alcuni dicono la menta. Io ci sento la pesca, magari, azzardando, la mela gialla (la Golden , mi fa notare Daniele). Al palato è rotondo, evoluto, ben strutturato, con un retrogusto di mandorla e vaniglia che impreziosiscono un’imponente vena minerale e mitigano il gesso, rendendo questo vino un’avventura affascinante e raffinata, anche per la notevole persistenza".

mercoledì 15 ottobre 2008

La fine di un mondo

Fa sorridere George W. Bush, il peggior Presidente della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver vinto le elezioni truccandole, dopo aver trascinato il paese in una guerra che ha dissanguato il bilancio federale, dopo aver sottovalutato e mal gestito l’emergenza creata da Katrina, dopo aver portato il mondo al disastro finanziario con politiche economiche dissennate, ha avuto il coraggio di alzare la cornetta del telefono e chiedere G8 straordinari e misure a salvaguardia della stabilità.
Fa ancor più sorridere che ci sia stato qualcuno dall’altra parte a rispondergli.
Fa sorridere che la guerra in Iraq sia una delle molte cause di questa crisi e non lo dica nessuno. Dopotutto abbiamo esportato la democrazia. Poco importa che la finanza islamica oggi sia ben più solida della nostra e che i cinesi, a breve, siederanno al tavolo dei potenti. Saddam è stato giustiziato. Ma un occidentale sopravvive a Baghdad senza scorta 11 minuti.
Fa sorridere che sia esistito chi pensava davvero che una nazione potesse continuare a consumare più di quello che produceva all’infinito.
Fanno sorridere i potenti del mondo, apparsi impotenti. Ora serviranno migliaia di miliardi di dollari per recuperare fiducia e credibilità. Ed è facile immaginare a chi toccheranno i sacrifici nei prossimi difficili mesi. Le misure approvate recentemente hanno tutte le caratteristiche di una gigantesca socializzazione delle perdite (tanto ormai i profitti sono stati privatizzati da tempo). 
Fa sorridere il governo inglese che con Thatcher e Blair ha privatizzato tutto ciò che era privatizzabile e nel giro di un anno ha già nazionalizzato tre colossi finanziari.
Fa sorridere che dopo avere de-localizzato, in nome della globalizzazione, oggi si dica “bisogna tornare all’economia reale”. Intanto abbiamo trasferito know-how e tecnologie in paesi che oggi producono a costi molto inferiori ai nostri e siamo pieni di call-center e venditori di polizze ma ci mancano i tornitori.
Fanno molto sorridere i tanti giornalisti economici che “siamo quasi fuori dalla crisi” oppure “il sistema è solido” oppure “il mercato correggerà gli squilibri” ed ora invece invocano lo Stato padrone in soccorso di quelli che gli hanno pagato le marchette i questi anni.
Fanno sorridere i molti che “i banchieri sono dei ladri” e ancora fino a ieri facevano la fila a comprare bond argentini, fondi azionari, obbligazioni Lehman Brothers.
Fanno sorridere i tanti che oggi “ci vuole l’etica negli affari” e fino a ieri plaudivano a Ricucci, Coppola, Tanzi e Cragnotti.
Fa sorridere il nostro Presidente del Consiglio. Tanto. Dopo aver discusso in nove minuti una finanziaria che non ha minimamente preso in considerazione questa crisi, lui che tromba per tre ore di seguito e dorme tre ore per notte, ha detto che forse andavano chiuse le borse. Cioè i mercati. Che neanche Lenin… Sì, ma poi ha smentito…
Fa sorridere la sinistra radicale. Ora che potrebbe dire di avere qualche flebile ragione, non esiste più. Per colpa di scarsa lungimiranza politica, di bassi personalismi, di incapacità di innovazione teorica.
Ma soprattutto fanno sorridere Walter Veltroni e gli altri dirigenti del Partito Democratico. Erano comunisti quando non andava più di moda. Allora sono divenuti socialdemocratici, ma non era già più di moda. Sono diventati semplicemente democratici. Ma ora che hanno molti amici nella finanza e hanno finalmente scoperto le magnifiche sorti (e progressive) del mercato, torna di moda improvvisamente l’intervento pubblico. Non ci capiscono più niente. Chissà i loro elettori. Accantonata in fretta e furia la tassazione delle rendite finanziarie promessa nel programma 2006 de l’Unione (roba da comunisti, il mercato non avrebbe gradito), hanno però scippato il TFR degli italiani per regalarlo alla previdenza privata. Proprio quella che sta fallendo in tutto il mondo. Dei geni. Alessandro Profumo, gran capo di Unicredit, è amico loro. Unicredit ha venduto derivati a mezza Italia, comprese molte giunte rosse, compresi alcuni comuni marchigiani. Come credenziali per co-gestire la crisi queste appaiono assai deboli.
Fa sorridere tutto questo. Ma è un sorriso amaro.
Questa crisi economica non è la fine del mondo. Ma rappresenta la fine di un mondo.Quello che appare sempre più chiaro è che indipendentemente dagli andamenti borsistici si sta entrando in una dura recessione. Parola che fa rima con disoccupazione. La storia insegna che i periodi di recessione colpiscono maggiormente le classi deboli. Ed è facile immaginare che i costi sociali dell’aggiustamento macroeconomico verranno sopportati proprio da quelle categorie che già sono in sofferenze: lavoratori dipendenti, famiglie mono-reddito, pensionati, giovani precari.  
Il secolo breve, il novecento, sta finendo in questi giorni per la seconda volta. Il secolo americano finisce d’autunno così come nell’autunno di diciannove anni fa era finito il sogno della Rivoluzione di ottobre. E’ la fine di un orizzonte culturale e sociale, la fine di quello che da qualche tempo viene chiamato Pensiero Unico. L’idea, cioè, che il benessere individuale e collettivo dipendesse dal mercato e che il mercato fosse esclusivamente il luogo del confronto economico.
Questa non è una crisi finanziaria passeggera ma è una crisi di sistema come lo era stata quella del 1929. E come quella crisi ridisegnerà le mappe della geopolitica e del potere economico. Accadrà nei prossimi anni e sarà un fatto ineluttabile. Lo dobbiamo ad una serie macroscopica di errori nelle politiche economiche del governo americano; alle problematiche di un modello di sviluppo insostenibile nel lungo periodo ed incentrato sul consumo dissennato di beni, di risorse naturali, di energia; ad una speculazione finanziaria che è stata voluta libera e globale; ad una Europa troppo timida e basata su principi monetaristi e finanziari prima che su solide basi politiche e democratiche.
La fine del liberismo di cui molti iniziano a parlare dovrà essere la fine delle facili ricette, delle risposte semplicistiche ad un mondo complesso. La fine di un paradigma.
Non sarà la fine della globalizzazione ma porterà alla mutazione della globalizzazione che abbiamo conosciuto finora. E qui sta la grande possibilità, la grande occasione: la costruzione di un un nuovo modello economico e sociale appare ora non solo possibile ma necessaria. Ci sono le competenze teoriche e le forze umane per farlo. Quello che finora è mancata è una chiara volontà politica: la capacità, propria delle classi dirigenti, di trasformare idee, pratiche, progetti, culture in agenda politica globale.
L’alternativa fa rabbrividire: società spaventate ed impaurite in preda ad una grave crisi economica senza chiari orizzonti democratici e cooperativi hanno già mostrato di rivolgersi a uomini della Provvidenza e a governi autoritari.

PS Sono molto contento del premio Nobel per l'economia a Paul Krugman. Non tanto per il ricordo dei suoi modelli di economia internazionale studiati all'università quanto perché ha sempre difeso e diffuso le proprie idee con coerenza in anni in cui il vento della teoria economica spirava in direzioni opposte. E poi le sue critiche alla globalizzazione sono venute molto prima di Seattle ma non si è mai venduto come guru no-global.
Un nuovo paradigma economico non può non vederlo tra i protagonisti, insieme ad Amartya Sen e Joseph Stiglitz.

venerdì 10 ottobre 2008

Stranezze d'autunno

Nell’auto nuova ma usata che ho da poco comprato c’è ancora un’autoradio a cassette. L’altra sera tornando a casa tardissimo, dopo l’intera giornata passata in vigna ed in cantina, vi ho inserito una roba vecchissima. Sì, lo so, sono dei terronazzi pop coi capelli lunghi cotonati. Ma sono passati vent’anni, mese più mese meno, da quando andai insieme a Massi ad ascoltarli in quello che si chiamava ancora Palatrussardi e così ho goduto come una scimmia col rock-metallo dei primi Bon Jovi. A chi storce il naso dico di andarsi ad ascoltare Homebound train dall’album New Jersey (del 1987 o 1988, non ricordo proprio bene). Perché come macchiette da MTV i ragazzi in questione, e specialmente Tico Torres e Richie Sambora, suonavano veramente da paura.
La vendemmia è finita. A breve i commenti. Credo che entrerò in letargo per qualche giorno perché sono stanchissimo.
L'altro giorno vendemmiavo alla Spescia. Raccoglievo, come sempre faccio, in piccole cassette per far arrivare l’uva perfettamente integra alla pressa. Di fianco, in un gigantesco vigneto di decine e decine di ettari, c’era una vendemmiatrice meccanica. L’ho osservata per un pò. Per scuotimento raccoglie gli acini lasciando i raspetti sulla pianta. Insieme agli acini raccoglie, ovviamente, tutto quello che alloggia sui filari in quel momento. Foglie, lumache, api, lucertole, nidi, ecc. Il tutto viene sversato nelle canali. Ovviamente la massa di acini spezzati, mosto e altro viene irrorata di antiossidanti in quantità. Le canali trainate da trattori vengono portate in un punto dove la massa viene riversata in un gigantesco cassone di raccolta che, una volta pieno, trainato da un enorme trattore si fa circa 10 km. di salite, discese e curve per arrivare alle presse della nota azienda vinicola industriale locale. Non so bene che cosa arrivi a destinazione, ma posso immaginare a quali trattamenti enologici venga sottoposto. E so che l’azienda in questione vincerà anche quest’anno i vari premi vinicoli in circolazione. Il vino è generalmente sulfureo ed amaro. Ma evidentemente piace. E chissenefrega delle mille piccole attenzioni, del momento perfetto per la raccolta, delle temperature, dei pH, tanto tutto si può correggere. Forse il coglione sono io. Forse i coglioni siamo noi vignaioli-artigiani che non stiamo a far tanti conti su quanto ci costa un quintale d’uva e su come o dove dovremmo risparmiare.
A proposito, ho bevuto il Nebiolo 2004 di Baldo Cappellano. Grandissimo vino. Elegante, dritto, senza sbavature. Viola, tabacco, sensazioni terrose, tannini veri. Cangiante nel bicchiere. Buonissimo. Forse proprio coglioni non siamo. Forse i coglioni sono quelli che han dato i premi a Brunelli che non eran brunelli. Un pò come quei giornalisti economici che dicevano che andava tutto bene...