venerdì 6 marzo 2009

La mia Bruce crisi

Non è la prima volta. E non sarà l'ultima. Ma certamente sono in piena Bruce crisi. Lo capisci quando la voglia di ascoltare l'ultimo disco non c'è; lo senti quando ti scorrono di fronte le date del nuovo tour e non riesci a deciderti; ti è chiaro mentre Massi ti lancia l'idea di andare a Dublino e tu tergiversi; ti è lampante quando ricominci ad ascoltare il bootleg di Genova '96.
Dunque, andiamo con ordine. Workin' on a dream non ha aiutato, questo è certo. Ma non è la causa. Il disco in sé contiene un paio di canzoni davvero brutte, ha un paio di canzoni inutili, ha dei suoni a volte discutibili. Ma ha anche un pugno di canzoni meravigliose, è suonato divinamente dalla prima all'ultima nota ed è pieno di idee e melodie. Non voglio entrare nel merito. E' uno Springsteen ancora diverso e, per certi versi, coraggioso. 
Il problema è un altro.
Il problema è che sono cresciuto che per avere un disco di Springsteen bisognava aspettare anche 4 anni. Sono cresciuto che per avere del materiale video bisognava scambiarsi loscamente VHS scoloriti in qualche fiera di settore. Sono cresciuto senza Greatest hits o Essentials o altre operazioni commerciali. Sono cresciuto che Springsteen non rilasciava interviste o, comunque, aveva un rapporto davvero minimale con la stampa. Alla fine degli anni ottanta sono cresciuto, cioé, con l'idea che Springsteen non fosse come tutti gli altri. Che fosse un alieno. Una cosa strana: assolutamente dentro al mainstream discografico ma al tempo stesso lontano anni luce da esso nelle scelte artistiche. 
Questa presenza/assenza significava una moltiplicazione assurda e fanatica del desiderio, che esplodeva nei concerti dal vivo (fino al 1996 davvero pochi in Italia) e nella isterica ricerca del bootleg definitivo. Ma significava anche, dall'altra parte, che ognuna delle parole scritte o delle note suonate aveva un peso semantico devastante. La leggenda di Bruce si è dipanata negli anni settanta e ottanta tramite i meccanismi potenti della creazione mitologica, per quanto concerne la densità di testi e musiche, e del passaparola per quanto concerne la comunicazione.
Negli ultimi anni, invece, è stato pubblicato di tutto. Raccolte, inediti, DVD, anniversari, progetti solisti, dischi tributo e chi più ne ha più ne metta. Articoli di giornale, retrospettive, interviste, apparizioni televisive, speciali radio e tivvù sono venuti di conseguenza. Si aggiunga a questo il fatto che dal 1999 in avanti, salvo rari momenti, il nostro è venuto in tour continuativamente in Europa ed Italia. A volte con risultati altalenanti (vedi tour 2003 e 2005). Tutta questa sovraesposizione se, da una parte, ha fatto riesplodere interesse per quella che a metà degli anni novanta era ormai solo una vecchia icona rock in fase decadente, dall'altra parte ha, a mio avviso, pesantemente modificato l'idea di uno Springsteen "indipendente" dalla discografia o dal sistema dei media.
La realtà è, quindi, che dopo il picco assoluto raggiunto con l'ultimo tour, uno dei migliori da 25 anni a questa parte, c'era bisogno di una fase di decompressione. Di una assenza. Di una riflessione. Di una sedimentazione. Specie in un momento di grande crisi in tutto il mondo. 
La dimostrazione di ciò sono i testi di Workin' on a dream: grande mestiere ma ben poche emozioni. Senza un senso, una direzione. Cosa vuol dire Springsteen con questo disco? Boh. Di fronte a una crisi senza precedenti, il più "sociale" di tutti i cantanti rock se ne esce con canzoni in gran parte allegre e spensierate, o comunque in gran parte intimiste... Proprio quando la carriera di un musicista è così "leggendaria" serve grande attenzione nel muovere qualunque passo. Poiché i gesti e le parole hanno un peso specifico differente. 
Si dice: Bruce voleva solo divertirsi e divertire con un disco leggero (mi vien da pensare: chissà allora il tour...). Bene. Ma ciò non toglie che poi il disco sia stato dato in mano a Wal-Mart per la distribuzione, con grande sorpresa dell'entourage Obama e dei tanti attivisti liberal per cui Springsteen è punto di riferimento; che sia stata fatta la mega-marchetta del Superbowl; che sia stato costruito un tour ben attento a creare sold-out facili, per esempio attraverso la scelta di località balneari o festival molto conosciuti (da sempre evitati da Springsteen); fino all'ultima pugnalata che riguarda Max Weimberg, il colpo di grazia: pare che Max possa saltare alcune date europee perché occupato col suo progetto MW7 in televisione. E pare che verrà sostituito. Ora, a parte il fatto che non esiste nessuno che possa sostituire Max Weimberg nella ESB... Il punto è: ok la scomparsa di Danny e la sua pronta sostituzione, ma la ESB non era la sacra famiglia? Non era "tutti per uno uno per tutti"? Non poggiava proprio sulla irriducibilità della band alle dinamiche classiche dei marchi discografici buona parte del mito Springsteen? 
Ed allora vien da chiedersi: che succede? Che cosa è successo in questi anni? Dove stiamo andando?
Le prime risposte verranno dall'impostazione delle scalette del tour americano che parte in aprile: di tutto abbiamo bisogno tranne che dei soliti pezzi triti e ritriti. Serve un'idea. Serve una impostazione chiara nella scelta di brani che abbiano una coerenza ed un filo conduttore. Serve uno Springsteen che abbia ancora qualcosa da dire. Dell'ennesimo artigiano non sentiamo grande necessità.

1 commento:

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie