lunedì 25 luglio 2016

Fine dell'insurrezione?


E dunque eccoci. 
Si moltiplicano i “disciplinari” del vino naturale. Aveva iniziato la sigla V.A.N. (Vignaioli Artigiani Naturali) qualche tempo fa, con una sorta di carta di intenti/disciplinare (leggere qui) sottoscritto da un centinaio di vignaioli... Ma l'annuncio di VinNatur, l'associazione condotta da Angiolino Maule, è di quelli che davvero lasciano il segno. Soprattutto per le intenzioni di "istituzionalizzare" il regolamento stesso attraverso una collaborazione col MIPAAF. In questo articolo si può leggere nel dettaglio di cosa si tratta e - perché no? - iniziare a dividersi su quello che c'è e quello che manca, sui livelli di solforosa (troppo alti o troppo bassi a seconda dei gusti), sul fatto se il regolamento in questione sia troppo restrittivo o troppo "largo".
Un dibattito che non mi appassiona.
Perché il problema non sta in quelle regole, ma nell'idea stessa di regolamentare il vino naturale: idea che secondo me equivale a farlo morire (dando ragione ex-post ai tanti nobili pensatori de "il-vino-naturale-non-esiste").
Le ragioni del mio dissenso sono molteplici e vorrei provare a spiegarle qui: sintetizzando in qualche modo i ragionamenti che dal Dioniso Crocifisso di Michel Le Gris al mio Non è il vino dell'enologo, attraverso Resistenza Naturale (film) e Insurrezione Culturale (libro) di Jonathan Nossiter, disegnano un percorso interpretativo del vino naturale che può non piacere ma credo abbia una sua rilevanza storica e filosofica.
Il vino naturale non è "un tipo di vino". Si tratta di un movimento di contro-cultura. Il vino naturale non è "un metodo". Si tratta di un atteggiamento etico ed estetico. Il vino naturale non è "un marchio". Si tratta di uno sguardo critico (uno dei molteplici possibili) rispetto alla catastrofe economico-ecologica del mondo attuale.
La vera e potente insurrezione dei vignaioli naturali (termine che ho sempre utilizzato preferendolo a "vino naturale" destinato a divenire immediato feticcio) non riguarda tanto, o non solo, quello che c'è o non c'è nella bottiglia di vino da loro prodotto, ma la ridiscussione profonda della relazione fra agricoltura ed industria, fra città e campagna, fra cultura e natura, fra tecno-scienza e vita biologica. Ridurre il vino naturale a un disciplinare di produzione significa piegarsi al gioco del "nemico", ridurre il proprio percorso ad una questione in definitiva ancora una volta tecnica (che cosa è infatti un disciplinare se non un "tecnicismo"?), riconducendo per l'ennesima volta la Natura all'Uomo, quando l'utopia del vino naturale stava invece nel ritorno dell'uomo nella natura (non da buon selvaggio, ma da animale sociale storicamente determinato! Cioè qui e ora, dopo quasi 50 anni di riflessione su ecologia, consumismo, sviluppo e decrescita).
Insomma, con il massimo rispetto che si deve ad una associazione seria come VinNatur, qual è l'immaginario prodotto da questo "disciplinare" se non un vino biologico con dei limiti più stretti? Ma allora non aveva senso una lotta per modificare il disciplinare bio? E soprattutto: non ci si accorge che così facendo il vino naturale viene ridotto all'ennesimo "bollino di garanzia" frutto dell'ennesimo "piano dei controlli", cioè a nicchia della nicchia in un mercato che andrà avanti esattamente come prima? L'insurrezione ridotta a controllo, in collaborazione col Ministero per giunta. Il paradigma della sussunzione.
La realtà è che chi opta per questa direzione sa benissimo tutto ciò, e che questa era la scelta fin dall'inizio di una certa parte del movimento: ridurre la portata "politica" dell'aggettivo naturale accostato al sostantivo vino, per farne principalmente strategia di marketing. Cosa legittima, peraltro.
Ma che mina potentemente ogni prospettiva di "insurrezione culturale".